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Le nuove generazioni del mondo

3 Aprile 2025

Le nuove generazioni del mondo

3 Aprile 2025

La crescita della popolazione mondiale si arresterà ben prima della fine di questo secolo perché ovunque il calo della fecondità è stato più forte di quanto ci si aspettava. Nei paesi avanzati lo spopolamento è già in atto ed è cumulativo e difficilmente reversibile perché diminuisce non solo il tasso di fecondità ma anche il numero di donne in età fertile. Decenni di calo delle nascite ci hanno consegnato coorti in ingresso nel mercato del lavoro sempre più piccole. Questo ha effetti sulla crescita economica, sul tasso di innovazione e sul mercato del lavoro. Siamo passati da un mondo in cui c’erano troppi pochi lavori a uno in cui ci sono troppi pochi lavoratori. L’insieme dei paesi Ocse soffre oggi di carenze di manodopera a tutti i livelli. Ma i giovani dei paesi avanzati hanno aspirazioni professionali spesso molto diverse da quelle per cui oggi si cerca personale. Tra le mansioni più richieste figurano l’assistenza domestica alle persone non autosufficienti, gli addetti alle pulizie, i camerieri, i baristi, tutte attività che offrono salari bassi, ritmi lavorativi molto pesanti, scarse prospettive di carriera e in cui una grande percentuale di lavoratori dichiara di non riuscire ad arrivare alla fine del mese. Sono caratteristiche oggettive di questi lavori, difficilmente modificabili cosicché anche salari più alti faticano ad attrarre chi oggi sceglie di non partecipare al mercato del lavoro. La domanda di famiglie e imprese è poi molto sensibile alle variazioni del costo del lavoro: calerebbe nettamente in caso di salari significativamente più alti, riducendo l’assistenza alle persone non autosufficienti e molti altri servizi offerti alla collettività.

Molti giovani non lavorano e non sono parte del sistema formativo. Il fenomeno dei NEET (Not in Employment, Education and Training) è l’altra faccia della medaglia di un sempre più diffuso disagio giovanile. “Avevo 20 anni: non permetterò a nessuno di dire che è l’età più bella della vita”. L’incipit di Aden Arabia di Paul Nizan non potrebbe essere più attuale. Negli ultimi 15 anni il profilo per età del malessere legato a stress e depressione è cambiato profondamente. Fino ad allora più di 600 indagini campionarie condotte in quasi 150 paesi del mondo documentavano in modo tra di loro coerente un andamento a campana del disagio per età: il grado riportato di insoddisfazione per la propria vita aumentava con l’età fino a culminare attorno ai 50 anni, nella cosiddetta crisi di mezz’età, per poi scendere in età anziana. Dal 2010 le cose sono cambiate: il disagio oggi è massimo per gli adolescenti e poi scende gradualmente con l’età. L’aumento del disagio fra gli adolescenti è corroborato dai dati sulle diagnosi di stati depressivi fra gli iscritti ai college degli Stati Uniti e in altri paesi. È un disagio che si esprime in molteplici forme: anoressia, bulimia, dipendenze, autolesionismo, violenza, suicidi, abbandono scolastico e rinuncia alla socialità. E coinvolge platee molto numerose: secondo l’Unicef sarebbero circa 11 milioni i bambini e gli adolescenti che soffrono di disagio psicologico nell’Unione Europea.

Sono molte le spiegazioni offerte per questo fenomeno e, come sempre, c’è probabilmente un concorso di cause anziché un solo motivo. La pandemia ci ha lasciato in eredità un lungo strascico di condizioni di disagio avendo privato per lungo tempo gli adolescenti di interazioni sociali fondamentali in quella delicata fase evolutiva permeabile alle condizioni ambientali. La causa maggiormente richiamata per spiegare l’aumento del disagio giovanile è comunque legata all’accesso precoce ai social media e alle restrizioni imposte dai genitori alle interazioni nella vita reale per una forma di protezione eccessiva dei propri figli. I possibili rimedi a questo stato di cose andrebbero cercati in alternative all’uso ossessivo degli smartphone, piuttosto che alla proibizione del loro uso. Invece di utilizzare i soldi del PNRR per distribuire dispositivi elettronici agli studenti delle scuole elementari, meglio sarebbe destinare quelle risorse a costruire campetti da calcio, palestre di basket e piscine, incoraggiando alla vita sportiva e alla socialità. Anche la musica può essere un potente antidoto contro gli stati depressivi e l’emarginazione.

Superata l’adolescenza il più potente strumento contro il disagio giovanile è rappresentato dalla realizzazione delle proprie aspirazioni professionali. Ma la transizione dalla scuola al lavoro è spesso una transizione difficile, soprattutto in Italia tant’è che mezzo milione di giovani spesso altamente istruiti hanno lasciato il nostro paese negli ultimi 10 anni. Invece di interrogarci sulle ragioni di questo esodo, l’attenzione generale è concentrata sull’immigrazione. Per ragioni spesso non strettamente economiche si teme l’arrivo degli immigrati, si offre il proprio sostegno a partiti e leader politici che pongono al centro delle loro strategie comunicative la chiusura delle frontiere e la deportazione in massa di coloro che sono presenti irregolarmente nel paese. Ma le proposte messe in atto per contenere i flussi migratori finiscono soprattutto per rendere più difficile l’integrazione e rendono l’immigrazione una emergenza continua.

Eppure, mai come oggi i paesi più ricchi del mondo avrebbero bisogno di manodopera immigrata. Nel breve periodo è spesso l’unica risorsa cui attingere per soddisfare le esigenze di famiglie e imprese alla disperata ricerca di personale che si prenda cura di famigliari non autosufficienti e di lavoratori in una vasta gamma di mansioni. L’immigrazione serve anche a migliorare i conti pubblici, rende più sostenibili i sistemi pensionistici per il semplice fatto che gli immigrati sono più giovani della popolazione autoctona, ampliando il numero di coloro che versano i contributi previdenziali rispetto a quello di chi riceve questi versamenti sotto forma di pensioni. Soprattutto gli immigrati di seconda e terza generazione, in particolare se incoraggiati da leggi di cittadinanza favorevoli e da investimenti in istruzione, possono dare un contributo importante alla crescita economica. C’è invece chi ritiene che, per contrastare il declino demografico, bisognerebbe chiudere le frontiere e incoraggiare le donne a fare più figli. Ma come sostenere le famiglie in questa direzione? E, in ogni caso, perché immigrazione e aumento dei tassi di fecondità dovrebbero essere obiettivi contrapposti? L’immigrazione ben gestita riduce il costo dei figli e libera tempo soprattutto delle donne da dedicare alla propria valorizzazione professionale, rafforzando anche la loro posizione contrattuale nella famiglia.

A Torino dal 30 maggio al 2 giugno ci occuperemo di questi temi col contributo non solo di economisti, sociologi, psicologi, ma anche con testimonianze dirette di chi conosce a fondo l’immigrazione, i cambiamenti in atto nell’organizzazione della vita famigliare, il profilo della domanda di lavoro e il disagio giovanile.

Tito Boeri

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